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Uno dei sussulti dell’esistere riguarda l’arte. Parte da questa considerazione l’autore di questo notevole libro, una raccolta di saggi che sono una testimonianza di una sincera passione.




Il primo testo è dedicato alla Zattera della Medusa di Théodore Géricault, un capitolo in cui l’artista supera il realismo in nome della forma. In questo fatto, non solo storico, l’umanità si degradò, come, stranamente, i materiali dell’opera stanno facendo ogni anno che passa. Tocca poi a Eugène Delacroix, artista intruppato nei romantici ma che ebbe ben altre aspirazioni. Egli propugnò infatti un colore che fosse preambolo per ogni immaginazione e che avrebbe avuto ancora tanto da dire in futuro. Si passa quindi ad analizzare la vita e l’arte di Gustave Courbet, autore che fece del realismo il suo credo ma che seppe esprimere tanto altro. L’arte di Édouard Manet diviene invece metafora per comprendere come certe poetiche abbiano sedimentato taluni percorsi nell’attualità dovendosi raffrontare con una censura che li ha indelebilmente marcati per il loro venire. Si passano poi ad analizzare alcune opere di Henri Fantin-Latour, quindi si ricorda come l'arte di Paul Cézanne si fosse nutrita dell'antico per dipanare percorsi della modernità che sarebbero stati portati avanti da altri. E' la volta poi del rapporto tra Edgar Degas e le figure femminili da lui immortalate, in realtà una modalità per estendere il concetto di forma umana e movimento. I noirs di Odilon Redon, sovente condiderati mere illustrazioni, hanno invece capacità di scoperchiare mondi immaginari ancora attuali. Nella notevole ricerca di Pierre Bonnard uno dei pezzi più rilevanti, per la carica drammatica, risulta essere Angolo di tavolo ( 1935 circa ). Édouard Vuillard fu protagonista di una carriera con alti e bassi, scevra però di riferimenti alla modalità con cui conduceva la propria vita personale. Arte perciò non corrisponde sempre a vita. Si passa quindi a Félix Vallotton, autore di opere caratterizzate da una “ profonda dissonanza emotiva “. Georges Braque visse un confronto con Pablo Picasso che ne ha definito non solo la propria parabola creativa. Rimase comunque una persona che mantenne una sua peculiare ricerca, anche quando non ebbe più grandi estimatori. René Magritte ebbe in David Sylvester un notevole interprete e perdurò in un'indipendenza che lo fece viaggiare su differenti registri poetici, anche rivolti al passato. La ricerca di Claes Oldenburg è arte che “ offre gargarismi visivi “ di un mondo consumistico e kitch che sfugge a certe cernite troppo tranchant. Dead Man di Ron Mueck ha avuto dei precursori che però non ne dimuniscono la portata significante per l'attualità. Lucian Freud visse in grande riservatezza e pretendeva obbedienza estrema dai suoi modelli. Inoltre si confrontò perennemente con Francis Bacon. I suoi quadri di donne nude sono forse un limite per un artista che, secondo l'autore, doveva tentare di misurarsi maggiormente con altri soggetti. Howard Hodgkin proponeva una pittura intima ma furente, difficile da declinare con le parole. Questo autore sembra il tipo di artista preferito da Julian Barnes, quello che con la propria opera non ha mai finito di interrogarci ulteriormente. Tali pillole esemplificate nel libro sono un viaggio in quell'arte che sa fare proprio questo.


- Stefano Taddei



Julian Barnes


Con un occhio aperto


Einaudi


pp. 296




L’icona, pur nelle sue diversificate esemplificazioni, permane come rappresentazione che intercede dalla concretezza verso il divino.




In ambito bizantino ci furono le controversie più dure, le quali coinvolsero anche l’Occidente e di cui il libro pone giustissima attenzione. L’icona diviene comunque una testimonianza del volto del Padre “ in-figurato “ nel Cristo. In tale modo la tragedia umana di Gesù mantiene aperto un canale dissonante tra umano e divino. Tra oro e colore inoltre l’icona cerca un equilibrio di sospensione, in nome di un rapporto non consolatorio nella fede in Cristo. La patristica ha difeso tale modalità rappresentativa come immagine parlante e quindi possibile di benefici di preghiera anche per i non alfabetizzati. E’ insomma un’apertura aperta a tutti tra l’elemento umano e quello divino. Inoltre la vita del Cristo da risorto è un mistero tra visibile e non più visibile. L’opera di Kazimir Malevič è un ulteriore tassello d’indagine sul fenomeno dell’icona. Il Quadrato nero, datato dall’autore 1913, è un momento di rottura nel Moderno. Egli pone in essere la non figurazione, unico lascito immortale perché non riproducente la finitezza delle apparenze mondane. Massimo Carboni parla giustamente di “ Deposizione “ di ogni iconografia, in nome di una nuova e piena libertà. L’astrazione fu indagata da Malevič in modo estremo. Qui si mette alla prova la nozione di “ oggetto “ e “ rappresentazione “. Tale pratica astrattiva rinnova continuamente i modelli di riferimento precedenti e successivi. La ricerca suprematista poi pare assecondare che i problemi del mondo non hanno alcun senso e si risolvono nel nulla. Malevič nel 1913 aveva partecipato all'opera teatrale fortemente influenzata dal futurismo russo “ Vittoria sul sole”. Qui e dal movimento artistico succitato sicuramente l'autore aveva desunto idee che aveva trasportato nel proprio fare pittorico. Secondo queste congetture l'oggetto deve scomparire e si deve manifestare il vero reale. Lo spazio, per Malevič, non ha più alcun riferimento riscontrabile nella contingenza. Il Quadrato nero – di cui ne esistono tre versione – è sì fonte di elevazione spirituale ma anche modulo ripetibile. Tutto ciò è sicuramente molto vicino all'icona e alle sue manifestazioni. Tante di tali questioni vengono veicolate nei principi del Suprematismo e anche successivamente trovano posto nelle fasi ulteriori del fenomeno. Nel Quadrato nero c'è l'evidenza del mistero, segno di un'assenza molto vicina al nulla del Sublime. L'opera apre all'infinito che sarà ereditata, tra gli altri, da Klein e Fontana. Il Quadrato nero si pone come “ tenebra luminosa “ e qui, secondo l'autore, ognuno dovrebbe ritrovare il vero sé. Il fare diviene metafora per rivolgersi all'inoperosità, con rimandi all'esperienza orientale e alll'annullamento pure della dimensione naturale. Nel 1919 Malevič, alla Decima Mostra di Stato allestita a Mosca, presenta una serie di quadri bianco su bianco, concretizzando la luce in questa peculiare dimensione di purezza/trascendenza. Questa modalità astrattiva, secondo Massimo Carboni, è uno scarto vicino a quello dei mistici. Nel 1923 inoltre Malevič va oltre, presentando quadri non dipinti e, pare, appesi sotto il soffitto. Siamo alla presenza, probabilmente, di un prodromo di performance che supera la mera questione pittorica. Da qui si passerà agli architektony o planiti, corpi tridimensionali che prefigurano nuovi modelli abitativi per una nuova esistenza dovuta alla rivoluzione russa. Tali indagini proposte dall'artista interrogano anche il nostro tempo, dove il fare arte presuppone anche una spiegazione teorica. Il Suprematismo porta avanti ed oltre il classico modo di proporre pittura. Malevič si propone nel proseguo degli anni Venti del secolo scorso ormai come pensatore perché crede che anche il segno vada superato in nome della scrittura. Egli evidenzia così i limiti dell'astrazione e della stessa pittura. In questa fase sono da sottolineare le tangenze di pensiero tra Malevič e Duchamp. Le retrodatazioni delle opere e il successivo ritorno alla figurazione hanno creato molti intoppi critici. Secondo Massimo Carboni in realtà, nel primo caso, Malevič e la sua cerchia non consideravano in modalità diacronica il tempo. Inoltre per l'artista l'idea era prevalente sull'aver messo in opera la stessa. La fase di ritorno alla figurazione poi non prescinde da riferimenti alla fase suprematista e dalla scarsa libertà che l'autore stava vivendo nella sua patria. Inoltre raggiunti certi picchi d'ascetismo artistico non poteva che rivolgersi al figurativo, senza però dimenticare quanto proposto precedentemente. I rovelli di Malevič sono una fonte pure di ricerche successive come quelle dell'arte concettuale. Secondo Massimo Carboni però l'artista ucraino, in tante opere, manifesta un minimalismo verso il nulla solo apparente. Permane un'ombra, un manifestarsi dell'inattingibile nella contingenza. Una sorta di dramma ancora aperto. Un testo di notevole livello e nella sua parte finale, un pregevolissimo apparato iconografico.


- Stefano Taddei


Massimo Carboni


Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia


Jaka Book, pp. 251



I Doors, come gruppo, sono stati sicuramente schiacciati dalla personalità strabordante di Jim Morrison. Le questioni extra-musicali hanno poi sovente coperto completamente un lascito che andrebbe investigato con più competenza.




E’ quello che si cerca di fare in tale testo. Qui, ad esempio, si propone un giusto riscontro al fatto che la dimensione concertistica del gruppo sia sempre apparsa molto differente da quella catturata su disco. Gli anni di maggiore attività dei Doors sicuramente riscontravano nella dimensione live non solo compagini che svolgevano il compitino di ripetere quello esibito in precedenza ma cercavano di stimolare nel pubblico un lascito differenziato e in continuo divenire. La dimensione teatrale delle performance live dei Doors si insinua copiosamente in questo alveo. Ma non era l’unica. Il libro ci accompagna in un viaggio che pare non essersi ancora compiuto, aperto al futuro ma pure strettamente attaccato al periodo in cui si è maggiormente esemplificato.


- Stefano Taddei


Alberto Nones


Ascoltando i Doors


L'America, l'infinito e le porte della percezione


Mimesis, pp. 158

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